Nike fa causa al collettivo MSCHF. Da brand activism all'azione legale. Cosa è andato storto?

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Gianna Morana
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Michael Reali
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Tra l’acqua santa e il sangue del diavolo, Nike ha scelto nettamente la prima passando da icona del brand activism a censore

A

Cos’ha di speciale il video di Lil Nas X?

Il video è stato preceduto da una lettera di Lil Nas X al se stesso quattordicenne pubblicata sul profilo Instagram dell’artista. Un coming out che è una vera e propria dichiarazione d’amore al ragazzo che era e un messaggio di empowerment per tutta la comunità queer.

Tra gironi danteschi, citazioni di Platone, una lapidazione ispirata a Maria Antonietta e una lap dance con il diavolo, appare l’oggetto del contendere: le “Satan Shoes”. Ma da dove arrivano queste sneakers?

Sono opera del collettivo MSCHF che per l’occasione ha creato uno speciale paio di Nike Air Max ’97 denominate appunto Satan Shoes” e contenenti una goccia di sangue umano nella suola. Una edizione limitata di 666 paia venduta a 1.018$.

 

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Sembra che la trovata non sia stata particolarmente apprezzata da Nike. Soprattutto quando ha iniziato a ricevere sui social diversi commenti indignati per la presunta svolta satanista del brand. Uno tra tutti, quello della governatrice repubblicana del South Dakota Kristi Noem.  Da qui in poi Nike ha deciso di fare causa al collettivo per danno d'immagine, per l’associazione del brand di Portland al satanismo. 

Ma cos’è il collettivo MSCHF?

MSCHF è un collettivo artistico nato nel 2016 che ha fatto dell'irriverenza la propria cifra stilistica. Nel corso degli anni si è fatto notare per aver creato sneakers artistiche che si prendono gioco del mondo del lusso, dell'arte e della moda svelando tutte le nevrosi del consumismo. 

MSCHF è noto per i suoi lanci virali come le "Jesus Shoes”. Un altro paio di Nike Air Max ’97 che contenevano 60 cc di acqua proveniente dal fiume Giordano, per intendersi è il fiume in cui, secondo la Bibbia, venne battezzato Gesù. Quella volta Nike non ebbe niente da dire.

Il collettivo alzò l’asticella della provocazione con la collezione "Birkinstock", realizzando gli iconici sandali Birkenstock con le pregiate pelli di alcune borse Hermès Birkin, venduti a 76.000$. Un vero e proprio fenomeno di transustanziazione, per usare il lessico teologico del collettivo, che ha letteralmente trasformato la scarpa banale per antonomasia nella sostanza stessa di un mito del lusso. 

Tutto questo ben prima che le l'azienda dei sandali venisse acquistata dalla multinazionale del lusso LVMH.

Cosa c’è dietro?

A prescindere da come la si pensi sulle tematiche religiose, forse la causa intentata da Nike va oltre le questioni spirituali: sembra infatti voler arginare la pratica sempre più diffusa di stravolgere i suoi prodotti. Il mercato di collezionisti e personalizzatori di sneakers vale globalmente oltre 1 bilione di dollari. Il cosiddetto business del re-selling di sneakers fino a ora è stato ben tollerato dai brand che, anche se non guadagnano direttamente dalle vendite, traggono sicuramente prestigio da questo tipo di operazioni.

Ma forse il problema non è (solo) economico e d'immagine. Personalizzare un prodotto nato in serie, significa, in qualche modo, hackerare il brand e la sua narrazione. Cambiarne i linguaggi e i significati e sostituirli con un pezzo della propria narrazione. 

Certo, le collaborazioni tra artisti e moda non sono un fenomeno contemporaneo. Ad esempio, l'incontro tra il genio di Salvador Dalì e quello di Elsa Schiaparelli diede vita a una delle collaborazioni tra artisti e stilisti più celebri nella storia della moda. Ma qui non si tratta di collaborazioni, anzi, MSCHF ci tiene a specificare che le sue capsule non sono frutto di accordi. No, siamo di fronte a un altro fenomeno. Sempre più spesso ci troviamo davanti a customizzazioni che nascono, per così dire, dal basso.  

Fenomeni in cui le dialettiche brand-consumer sono a parti invertite, in cui il patrimonio narrativo di una marca viene fagocitato dai consumer per essere poi letteralmente digerito, trasformato e restituito alla community, sempre nella stessa forma ma con altri significati. 

 

I prodotti vengono destrutturati e privati del loro significato originario diventando vere e proprie performance artistiche simbolo di tensioni sociali e culturali. Una sorta di user-experience portata all’estremo.

La sbavatura del brand activism 

Viene da chiedersi: non sono queste le situazioni che provocano un cortocircuito nel nuovo paradigma di brand activism in cui si stanno posizionando le marche? Non è forse un'increspatura sulla superficie nel mare dell’etica, dell’attivismo e della presa di posizione in cui i brand hanno cominciato a sguazzare forse con troppa leggerezza?

Così Nike, dopo aver sostenuto Colin Kaepernick con la campagna "Dream Crazy”, non solo rischia di essere percepito come un brand repressivo e conservatore, per la scelta di fare causa a un collettivo artistico, ma mette a repentaglio la sua credibilità schierandosi con l'ala più integralista dei cattolici, proprio contro un artista nero e queer. 

E allora mi viene in mente uno dei 30 punti del The Newtrain Manifesto, scritto dagli studenti della Scuola Holden, con la guida di Paolo Iabichino:

 

24. Ricordatevi che avete un peso: non siamo sulla luna! A ogni azione corrisponde una reazione, fare mercato vuol dire anche fare cultura.

 

Che sia il caso che lo leggano anche dalle parti di Portland?

 

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