Neumorfismo, ecco perché no

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Salvatore Chiarenza
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Ultimamente si è parlato dello stile grafico chiamato neumorfismo: ma siamo sicuri che sia una cosa buona e giusta? Io penso di no, e vi spiego perché.

D

Per chi non sapesse di cosa stiamo parlando, si caratterizza per questi elementi:

  • l’uso di una palette sui toni chiari e con pochi contrasti tra i vari elementi dell’interfaccia (ma non è obbligatorio, molti hanno anche scelto l’interfaccia nera)
  • la scelta di creare elementi dell’interfaccia di forma geometrica
  • l’uso di una luce radente per conferire agli oggetti un’apparenza di tridimensionalità

Siccome in questo caso un’immagine vale più di mille parole ecco a cosa somiglierebbe un’interfaccia grafica disegnata in base a questo stile:

Un esempio di interfaccia in stile neumorfico
Neumorfia, portami via: bassi contrasti, pulsanti in rilievo ma con garbo, palette di colori limitata

Se volete altri esempi basta cercare e ne trovate quanti ne volete.

Nel corso di questi mesi, il neumorfismo ha solleticato le fantasie di numerosi designer in giro per il mondo. Le persone si sono sbizzarrite nell’inventare le interfacce più fantasiose usando i principi di design individuati da questo stile.

A un dato momento sembrava addirittura che tutti si dovessero convertire a questo stile: a qualcuno è venuto anche il pensiero malandrino che Apple avesse adottato il neumorfismo (ma no, non lo ha fatto). 

Gloria, gloria, gloria al neumorfismo

Non è difficile capire il perché del suo successo. Fino a ora lo stile imperante è stato il minimalismo del flat design, per intenderci quello che vedete adesso sul vostro telefono. Pochissime ombre, forme geometriche, assenza quasi totale di tridimensionalità. Questo per intenderci:

Esempio di interfaccia flat
Un esempio di interfaccia flat.Scusate l'inclinazione, ma questo passa il convento

Ora, è vero che lo stile flat ha esaurito le sue possibilità linguistiche. I designer hanno sperimentato tutte le possibilità. Da questo punto di vista, il neumorfismo è stato quindi lodato come una ventata di freschezza. Lo stile non abbandona del tutto il minimalismo e la pulizia del flat design, ma lo contamina con gli effetti tridimensionali del suo predecessore, lo skeuomorfismo (quello stile grafico in cui gli oggetti dell’interfaccia sembrano avere un'esistenza reale dentro lo schermo).

Ecco un confronto tra i vari stili:

Un confronto tra gli stili skeuomorph, flat, material e neumorph
Il confronto tra gli stili fa emergere le differenze

E anch'io io sono d’accordo: il neumorfismo è figo. Uno stile basato su ordine, pulizia, spazio bianco che ci si potrebbe giocare a calcio è il sogno di ogni visual designer. Chi lo ha inventato sa oggettivamente fare il suo mestiere.

C’è solo un piccolo problema però: non è chiaro quale mestiere faccia, se il designer di interfaccia o il designer visuale.

Il problema non è il neumorfismo in sé, è il neumorfismo in me

Da più parti è stato notato infatti che un’interfaccia progettata con i criteri del neumorfismo è un incubo per l’accessibilità

Come abbiamo visto prima, una delle caratteristiche del neumorfismo è l'utilizzo di un basso contrasto tra gli elementi e lo sfondo. Ora, questo aspetto crea numerose difficoltà alla persone ipovedenti che hanno problemi a riconoscere i vari elementi dell’interfaccia.

Disegnare un’interfaccia con questo stile vuol dire quindi escludere dal proprio orizzonte progettuale tutte le persone che hanno problemi alla vista. E già questo non me lo fa stare simpatico: in un'epoca in cui si parla di design inclusivo una cosa del genere è quantomeno reazionaria.

Ma senza entrare nei discorsi etici, il problema non è tanto essere pro o contro il neumorfismo. Ci possono benissimo essere dei contesti in cui l’accessibilità non è un problema e il neumorfismo è la scelta più azzeccata.

Il problema è semmai eleggere uno stile grafico a nuovo trend di design basandosi solo su canoni estetici. Questo è grave per chi dovrebbe essere invece il paladino degli utenti e dell'usabilità. Le interfacce sono degli oggetti un po’ particolari. La loro funzione primaria è permettere a due sistemi, l’uomo e la macchina, di comunicare reciprocamente con successo. Il fatto che siano belle esteticamente è subordinato a scelte progettuali sottostanti che le rendono usabili.

Un’interfaccia può essere bellissima, ma fare schifo nell’assolvere la sua funzione che è appunto quella di permettere all’uomo e alla macchina di interagire con successo. Un’interfaccia bella non è per forza migliore di una brutta anche se a primo impatto può apparire più usabile di un’altra meno curata esteticamente, in base allo aesthetic-usability effect

Quando si progetta un’interfaccia, il percorso non va dall’estetica all’usabilità ma al contrario: dell'usabilità all’estetica. E se si parla di usabilità si inserisce per forza nel discorso un soggetto concreto, una persona. Non un utente medio, un qualcuno generico: una persona in carne e ossa. Qualcuno con degli obiettivi, dei bisogni, un cervello che fa fatica e consuma glucosio e una bocca per tirare imprecazioni quando le cose non vanno come noi ce le siamo immaginate nel nostro mondo ideale. La domanda quindi è: per chi stanno progettando quelli che disegnano le interfacce in stile neumorph? Se provate a rispondere a questa domanda vi renderete conto che la risposta è per loro stessi e i loro amici di Dribbble.

Il neumorfismo è frutto di una cultura che non si pone queste domande. Progettare interfacce basandosi solo sull’estetica e ignorando totalmente il contesto è bello sì: ma poco efficace ai fini del nostro lavoro. Tutt’al più è tecnica, nei casi migliori, ma non design.

Non siamo artisti, le interfacce non sono oggetti che devono essere guardati ma oggetti che devono essere usati: e se viene meno questo principio, stiamo mettendo nel mondo un oggetto che crea problemi alle persone anziché risolverglieli.

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Salvatore Chiarenza

UX Copywriter

Chiamatemi Salvatore. Qualche anno fa - non importa che io vi dica quanti - avendo pochi soldi in tasca e niente che particolarmente m'interessasse a terra, pensai di mettermi a navigare per un po', e di vedere così la parte acquea del mondo.